REGALATI
Nei panni di mia moglie
di A. Saviano

ISBN 88-7568-298-4
EDITRICE NUOVI AUTORI
via G. Ferrari, 14
20123 Milano (MI)

SOMMARIO
01 - Il lavoro rende liberi
02 - Senza famiglia
03 - Il mio nome è Marco Bianchi
04 - Apprendistato e tutoraggio
05 - Domani è un altro giorno
06 - Me ne vado, vado via
07 - Lasciate ogni speranza
08 - Apprendista, intraprendente
09 - Chi non muore si rivede
10 - Assistente, meno otto
11 - Operaio, meno sette
12 - Caposquadra, meno sei
13 - Capoturno, meno cinque
14 - Caporeparto, meno quattro
15 - Colletto bianco, meno tre
16 - Responsabile di funzione
17 - Quadro, meno due
18 - Dirigente, meno uno
19 - Amministratore delegato, piano terra
20 - Il segreto del decimo piano
21 - Postfazione (ovvero il vero colpo di scena)

PREFAZIONE

La storia inizia con Marco ancora disoccupato – affitti arretrati da pagare, auto da rottamare, bollette e altre scadenze che incombono sul suo inconsistente reddito. Dopo una lunga attesa finalmente un'opportunità che si concretizza quando si reca presso l'opificio di una prestigiosa multinazionale: la In.Fe.Ri. group.
Lo stabilimento – che dall'esterno sembra il massimo che qualsiasi lavoratore potrebbe desiderare – si rivela tutt'altro e ben presto Marco dovrà ritornare sul giudizio frettolosamente dato.
Superato un periodo di prova a dir poco allucinante e sopita l'iniziale rabbia, il ragazzo inizierà ad abituarsi a quel luogo di lavoro dimostrandosi particolarmente valido nell'affrontare e risolvere i piccoli e grandi problemi che assillano l'azienda – descritti sempre come momenti tragicomici appartenenti al mondo dell'assurdo. In tal modo Marco, vivendo momenti altalenanti di grande euforia e di somma disperazione, comincerà la sua scalata ai piani “alti” – in realtà riemergerà dal sottosuolo – arrivando al successo.
Le metodologia ei problem-solving e di time-management fanno sicuramente da sfondo a questa storia, ma lo fanno in maniera discreta, assumendo la figura dei docenti universitari che il ragazzo ha avuto e che ritorneranno sotto forma di sogno per aiutarlo.
Seguendo il suo percorso di vita, la visione del mondo di Marco, inizialmente molto influenzata dal periodo di grande negatività che ha trascorso, tenderà ad ampliarsi e modificarsi e altrettanto accadrà per il rapporto interiore tra etica e morale.
Tutto questo, proprio quando sarà ad un passo dall'apice, lo porterà ad affrontare l'enigma di un livello sotterraneo misterioso (il decimo) dove, con alcuni colpi di scena, viene mantenuta fede allo schema: illudi, frustra e infine sorprendi le supposizioni del lettore, il quale durante tutta la lettura – pur sorridendo e, a volte, addirittura ridendo - viene costretto a riflettere su quali siano le reali condizioni di vita in cui versano molti lavoratori anche al giorno d'oggi.
Anche in questo mio racconto (come nel precedente) la scritta FINE non pone termine al romanzo, poiché il vero e proprio colpo di scena avviene nella postfazione, sottoposta ancora una volta all'attenzione del lettore come capitolo a se stante e caratterizzata dal sottotitolo “ il vero colpo di scena”.

Disoccupato in attesa di lavoro

di Andrea Saviano

I - Il lavoro rende liberi


Da molto tempo, tutte le sue notti – insonni – erano affollate di sogni angosciosi. Ogni sua giornata, invece, era caratterizzata soprattutto di astruse visioni, quasi sempre popolate da strani "ectoplasmi", che il più delle volte aveva l'apparenza di una ragazza o – molto più raramente – di un giovane uomo.
Costoro, dall'aspetto distinto ma ai suoi occhi sempre pallidi ed impalpabili come fantasmi, erano di volta in volta: il suo accusatore, il suo giudice, il suo carnefice.
Ogni volta che si ripeteva questo interrogatorio/processo, essi non rivolgevano mai lo sguardo direttamente verso l'imputato, ma guardavano sempre davanti a loro quasi nel vuoto, mantenendo costantemente un sorriso asettico e artificiale, quasi fossero in preda ad una paresi facciale o come se dall'altra parte della scrivania in realtà non ci fosse seduto nessuno. In pratica, come se in realtà lo spettro fosse stato lui.
Così, giorno dopo giorno, con una monotonia quasi esasperante, si riproponeva - presso uffici di volta in volta differenti – sempre la stessa ridicola messa in scena. Con una cadenza quasi quotidiana, si apriva il sipario sull'ennesima replica dello stesso stupido e tragico teatrino dell'assurdo.
Una rappresentazione che per lui aveva assunto le sembianze di un incubo ad occhi aperti. Come al teatro, la vicenda era sempre la medesima e la narrazione variava solo per alcuni dettagli. Improvvisazioni dovute al fatto che l'attore cambiava, pur essendo sempre medesima la parte, cosicché la trama riusciva ad essere ininterrottamente fedele a se stessa. In sostanza, l'interrogatorio/processo cominciava non con la richiesta all'imputato di alzarsi, ma con il cerimonioso suggerimento di sedersi comodamente. Qualcosa di simile, insomma, al carnefice che chiede al condannato di "accomodarsi" sulla sedia elettrica.
Queste strane figure eteriche all'inizio chiedevano ogni volta la medesimo e annoiato quesito. Non con il tono di una domanda, ma con quello dell'ordine perentorio di un interrogatorio in questura.
« Nome e cognome. »
« Marco Bianchi »
Tutto ciò senza evitare che la frase non fosse penosamente cadenzata con la piattezza della routine. Tutto, dai gesti alle parole doveva essere freddo, praticamente asettico, cioè: professionalmente distaccato. Perché, innanzitutto, la regola non scritta che vigeva in quei luoghi era: non farsi coinvolgere dalle miserie altrui. Può un carnefice provare pietà per un condannato?
Poi, sempre in maniera impersonale, quasi a ribadire un muro al di là del quale non poteva esistere commiserazione, seguiva l'altrettanto tipica e più articolata seconda domanda.
« Età, titoli di studio ed esperienze di lavoro. »
« Trentadue... quasi trentatre. »
Era in questo preciso momento dell'intervista di lavoro che tendeva a chiudersi in uno strano silenzio, poiché la voglia di dire la verità cominciava a vacillare, anzi a scorrergli lungo il corpo, per colare sul pavimento. Esattamente a questo punto di ogni colloquio preliminare il diploma di maturità e la laurea diventavano quasi una vergogna da nascondere, un inutile ostacolo alle reali opportunità di impiego offerte da un mercato del lavoro in cerca essenzialmente di gretta manovalanza.
Un'economia in cui tecnica e tecnologia non erano richiesti, perché viveva di improvvisazione. In realtà, per essere politicamente corretti, era sempre meglio parlarne in termini di "creatività" piuttosto che di arte dell'arrangiarsi. Così, chi stava seduto sulla più scomoda tra le due comodissime poltroncine sapeva benissimo che, in quel minuscolo insieme di parole, risiedeva il labile confine tra mondo reale – quello in cui occorre mangiare tutti i giorni, pagare le bollette, saldare i conti – e le fantasie astratte dei giuslavoristi – quelli che, spesso, un lavoro "vero" non lo hanno mai dovuto fare..
Da che mondo è mondo c'erano sempre state più richieste d'impiego che posti di lavoro e lui lo sapeva così bene da poter citare in perfetto ordine alfabetico tutti gli autori che avevano trattato ciò nei loro trattati o nei loro saggi. Tuttavia, nessuna azienda chiedeva l'ampia cultura di un liceo e solo pochi eletti riuscivano a rendere la propria laurea il "passaporto" per un mondo migliore (un impiego di prestigio) cosicché nel mondo reale – quello che si materializza appena al di fuori degli uffici delle teste d'uovo universitarie – raramente si aveva la possibilità d'essere remunerati in maniera adeguata e commisurata agli sforzi necessari per ottenere quel pezzo, spesso inutile, di carta.
Accadeva così che gli operai specializzati guadagnassero ben più... molto di più di un laureato con esperienza, figuriamoci poi se il laureato di esperienza non ne aveva affatto!
In questo mondo reale, fatto di improvvisazione, soprattutto gli abili commerciali guadagnavano in maniera sproporzionata ai loro meriti. Probabilmente a dimostrazione che una buona parlantina, in grado di rifilare qualsiasi bidone, valeva molto di più del genio necessario per inventare qualcosa di veramente innovativo.
Avere la faccia come il culo per poter dar tanta di quell'aria al cliente da stordirlo ed illuderlo. Illuderlo di avere la necessità di qualcosa. Illuderlo delle prerogative di quel qualcosa. Illuderlo dell'economicità di quel qualcosa. Illuderlo, dopo la firma, d'aver fatto lui il vero affare per poi renderlo certo, solo qualche mese più tardi, di essere stato buggerato.
Già, in questo consisteva la differenza tra gli aggettivi abile e bravo.
Dopotutto Marco aveva ormai compreso che la classe imprenditoriale nostrana era rinomata per non avere mai avuto un adeguato respiro internazionale, per non aver mai saputo affidare la gestione delle imprese a dei profesionisti capaci. Persone alle quali non era possibile limitarsi ad essere dei semplici fornitori di capitali di un investimento tanto redditizio quanto – ben inteso – a rischio.
Essenzialmente si trattava a loro volta di piazzisti. Di urlatori da mercatino rionale. Insomma, dei venditori di ghiaccio agli eschimesi.
Un'economia effervescente, per i miopi. Per chi come lui ne aveva passate di tutti i colori: un rigenerarsi di aziendine caratterizzate da un'elevata mortalità. Quando qualcosa "tirava", avanti tutta nella speculazione! Il tutto senza essere poi cronicamente in grado di prevedere – quindi poi provvedere per tempo – alla saturazione del mercato da parte di tutti gli altri squali.
Insomma, un mare popolato di pescecani che chiamavano innovazione ciò che spesso era più il frutto di una maldestra imitazione artigianale, che della creatività progettuale e della successiva industrializzazione.
Marco pensò per un attimo che questo era il suo vero problema: aver studiato; ma era altrettanto indubbio che l'unica cosa in cui era veramente "capace" questa classe imprenditoriale era il lamentarsi: della concorrenza sleale, del costo del lavoro, dei sindacati, del governo oppure – attività di gran lunga preferita – farsi la guerra dei prezzi giocando al ribasso su soluzioni di scarso valore che caratterizzavano, nella più assoluta monotonia, tutto un distretto.
« Titoli di studio ed esperienze di lavoro? »
Era come se il precedente quesito, troncato della parte iniziale, fosse tornato sotto forma di eco.
Cosicché, quando alla fine si arrivava a dover parlare del suo titolo di studio e delle esperienze di lavoro, per lui era un calvario. Le stazioni di quella via crucis erano costellata di mezze verità. Non erano vere e proprie bugie.
Si trattava di raccontare, con termini leggermente diversi, di tutte le volte che – nella situazione contrattuale debole in cui s'era trovato – era stato sfruttato, mal pagato e vessato. Insomma com'era umanamente possibile poter candidamente parlare di tutta quell'esperienza che aveva accumulato negli anni, ma che era difficilmente dimostrabile perché sempre connessa ad un termine fin troppo diffuso nel mondo reale: "in nero". Un termine che lo aveva portato ad accettare rassegnato quella condizione di precariato cronico.
« Allora, ho frequentato un istituto professionale. »
Questa indubbiamente era una bugia, ma nessuno gli aveva mai chiesto di esibire copia del suo titolo di studio.
« Il mio primo lavoro... »
Snocciolando i vari impieghi a carattere temporaneo, non emergeva mai chiaramente che:
solo raramente era riuscito a lavorare per solo otto ore – lo straordinario da quelle parti pareva essere un qualcosa d'ordinario,
quasi mai era stato pagato in modo regolare – spesso parte lo straordinario non gli veniva retribuito,
da interinale si era ritrovato sempre ad ottenere un compenso relativo a qualifiche inferiori a quelle effettivamente svolte, perché dopotutto parte dei soldi versati dal datore di lavoro doveva pagare il "caporalaggio",
mai aveva visto rispettare con lui e con gli altri i diritti più elementari del lavoratore – assoluta assenza di dispositivi individuali di protezione, mancato rispetto delle normative igienico sanitarie e chi più ne ha più ne metta.
Tutto questo gli rimaneva sempre in gola come un enorme nodo, anche se avrebbe voluto gridarlo a gran voce.
Gli immigrati erano ricattati grazie ai permessi di soggiorno e quindi non erano in grado di gridare il loro no; mentre gli indigeni, dovevano adattarsi a questo stato di cose per non subire la concorrenza "sleale" degli immigrati. I sindacati erano solo una casta di burocrati che tutelavano essenzialmente quelli che un lavoro fisso e regolare ce l'avevano e che, quindi, potevano pagare regolarmente la loro quota associativa.
« Se si trattasse di mafia lo chiamerebbero pizzo! » Gli sfuggì dalle labbra come un sussurro.
« Scusi, cosa ha detto. Non sono riuscito a capirlo. »
« Niente, un commento tra me e me. »
La riflessione amara gli veniva dal fatto che questo, in fin dei conti, era l'elevato costo del lavoro di cui molti imprenditori si lamentavano. Già tutto questo era la concorrenza così leale a cui erano costretti nei confronti dei loro così sleali concorrenti internazionali.
« Primum vivere, deinde philosophari! » Biascicò.
« Scusi, cosa ha detto. Non sono riuscito a capirlo. »
« Niente, un commento tra me e me. »
Quasi un déjà-vu.
A parte tutto, erano tempi duri – semmai c'erano stati, nella storia dell'economia, tempi che non fossero stati duri per le masse popolari, anche per questo la vita era una cosa troppo seria per essere vissuta con leggerezza.
A questo punto, terminava il primo atto e cominciava il secondo.
L'interlocutore di turno, cominciava a dissertare sul fatto che il mercato del lavoro era stato alterato dall'immigrazione incontrollata proveniente dai paesi più poveri e che quindi: bisognava sapersi accontentare.
Questa povera gente spesso proveniva dai paesi meno rispettosi dei diritti civili.
Chissà di chi era l'idea assurda che si potesse creare un libero mercato su scala mondiale, senza assicurare che venissero rispettate, sulla medesima scala, regole comuni.
Come sempre accadeva a questo punto della recita, Marco pensò ai diritti elementari del lavoratore. Sarebbe stato sufficiente imporre dei dazi "etici", ma poiché il più pulito dei governi c'aveva la rogna, nessun stato "civile" s'immaginava d'imporre dazi per non vederli poi imposti a sua volta, per reciprocità, sui propri prodotti.
Alla classe imprenditoriale tutto ciò andava bene, perché diminuiva il costo del lavoro e permetteva di diffondere la falsa opinione che certi lavori gli indigeni non volessero più farli. Dopotutto gli imprenditori sono per definizione sfruttatori e la classe operaia una massa di sfruttati.
L'innovazione costa. La ricerca costa. La tecnologia costa. Indubbiamente era più utile reagire all'aggressività sui mercati del mondo emergente divenendo terzo mondo. Cioè puntando solo sulla diminuzione del costo della manodopera, dequalificando il lavoro o trascurando elementi come la qualità e l'affidabilità.
Nel terzo ed ultimo atto, Marco, mani in tasca, sguardo basso quasi a cercar i suoi passi sul marciapiede, tornava verso casa, riflettendo tra sé e sé sull'immigrazione incontrollata.
Non era nulla di nuovo sul piano storico. Si trattava solo dei nuovi "barbari". In questo termine nessun spregio, ma solo il suo significato etimologico dal greco: straniero. Lo straniero non conoscendo la lingua indigena, tende a balbettare, per cui il termine balbettante e straniero avevano finito per coincidere.
Già, lui aveva studiato e sapeva bene che i barbari non avevano sconfitto l'impero romano con le battaglie. Insomma, non c'era stato uno scontro tra eserciti. Solo banali flussi migratori.
I cosiddetti barbari s'erano semplicemente sostituiti alla popolazione autoctona secondo il più antico e redditizio dei metodi per avere il predominio territoriale: la pulizia etnica.
Non tramite lo strumento cruento dello sterminio, ma con il più semplice e più incruento avvicendamento.
Il loro numero era cresciuto sempre di più, fino a superare quello delle popolazioni native, cosicché le antiche regole imperiali – dura lex sed lex – erano state alla fine sostituite con l'anarchia dei Goti e questa aveva portato alla decadenza dell'impero come entità sociale organizzata.
Incredibile a dirsi, gli italici – tutto metodo e disciplina – avevano ceduto la manovalanza e i bassi livelli dell'esercito a coloro che tendevano a spandersi ovunque.
Nomen omen – il nome è un presagio – e l'etimologia del termine goto è spandersi, diffondersi.
« Il significato delle parole è importante! » Commentò, tirando un gran calcio ad un barattolo, proiettandolo alcune decine di metri più in là, mentre si recava all'ennesimo colloquio di lavoro.
Una sigaretta tra le labbra non sarebbe stata una cattiva idea, ma aveva abbandonato da tempo quella cattiva abitudine, non perché il fumo nocesse gravemente alla salute, né per improvvisa virtù, ma semplicemente perché quel vizio era diventato un costo insostenibile per il suo portafoglio.
Così, con la forza della disperazione, trovò il coraggio di chiederne una ad uno sconosciuto e, un attimo dopo stava compiendo l'ennesima sciocchezza della sua scellerata vita.


CONTINUA

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Disoccupato in attesa di lavoro di Andrea Saviano
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